• Paolo Veronese
  • 1573
  • Olio su tela
  • 5,5 m X 13 m
  • Galleria dell’Accademia, Venezia.

È un dovere per me di seguire l’esempio dei miei predecessori

Paolo Caliari, detto Veronese, fu un pittore italiano cinquecentesco del pieno manierismo, caratterizzato dalla tavolozza dalle tinte chiare, dal virtuosismo prospettico e da un certo gusto per l’arte precedente, esprimendo la necessità, quasi paragonabile al movimento classicista italiano ottocentesco, di rifarsi nei suoi quadri a tematiche e raffigurazioni già note alla storia dell’arte.

La Cena in casa di Levi è una tra le opere certamente più iconiche dell’intera produzione artistica del Veronese. A primo impatto, data la posizione appena distolta dalla centralità del quadro del capo di Cristo ed i vari e disordinati dibattiti che avvengono alla sua destra e sinistra, ricorda Il Cenacolo di Leonardo da Vinci. Effettivamente la modalità è inconfutabilmente simile: una lunga tavolata con al centro l’immagine di Cristo, ai cui lati molte persone stanno intraprendendo un dibattito, a volte molto acceso, come si può notare dall’espressività dei volti, all’interno di una grande stanza. Tuttavia le differenze sono sostanziali ed evidenti: dalla prospettiva di veduta del quadro all’ambientazione, dai soggetti raffigurati al momento storico.

Questo climax discendente permette, partendo da una visione d’insieme, di arrivare a comprendere e notare anche i minimi particolari nei personaggi più caratteristici del quadro. Per quanto riguarda la prospettiva s’intende subito come essa sia centrale, in cui di fronte all’osservatore appare l’immagine di Cristo con una leggera aureola di colore giallo appena sopra la testa. L’ambientazione è invece di tipo regale, la cena si sta svolgendo all’interno di uno sfarzoso e ricco palazzo signorile di Venezia, in cui la tavolata centrale è posta al di sotto di una loggia tripartita da due ordini di tre archi a tutto sesto, sorretti ciascuno da due colonne con capitello corinzio e divisi da una colonna più grande dello stesso ordine al centro. Sullo sfondo si può notare che il muro, cui danno le spalle gli invitati, è completamente affrescato, in cui gli unici colori presenti sulla tavolozza del pittore sono le varie tonalità del blu, il bianco ed un pizzico di nero. Al di sopra delle volte la pittura del Veronese arriva sino a raffigurare le varie sculture di color oro del palazzo, il quale presenta un’inconfondibile gusto per i canoni dell’epoca classica, come si può notare dalla geometria del pavimento intarsiato, dagli ordini architettonici, dai corrimani e dalle varie rappresentazioni scultoree presenti nell’intera sala.

Il Veronese non si è limitato alla raffigurazione dei 12 apostoli, che siedono bipartiti alla destra ed alla sinistra di Cristo, bensì ha scelto di dipingere oltre cinquanta figure diverse, le quali rappresentano senza dubbio l’intera gerarchia sociale dell’epoca. Partendo dall’allora considerato ceto più basso, si può notare come siano presenti circa sette servitori con il colore della pelle nero, tra cui sono compresi anche tre bambini, indice dell’immensa potenza ed influenza della ricca e gloriosa repubblica marinara di Venezia durante il XVI secolo sui mari dell’Asia e dell’Africa. Si possono notare inoltre altri servitori, intenti nell’atto di servire i vari ospiti seduti alla tavolata. Innumerevoli guardie armate, sulla destra dell’osservatore, presiedono la sala atti a garantire la sicurezza degli ospiti, mentre vari giullari di corte tentano di rallegrare l’aria tempestosa creatasi. Di fronte all’immagine di Cristo, leggermente destrogiro, siede la figura di un cardinale mentre alle sue spalle si possono notare un cane e, in ambo i corrimani, due nani instabilmente appoggiati ad essi e probabilmente ubriachi.

Il Veronese, pittore che nelle sue opere segna l’ibridazione tra mondo reale e falsità ideale del contesto religioso, ha voluto evidentemente unire in un’unica tela un sunto della società ad egli contemporanea: lo schiavismo, la servitù, il classico, l’animalesco, il religioso, il comico, il beffardo e i piaceri terreni. Ci si trova di fronte ad un capolavoro di opposizioni tra il sacro ed il profano, tra il bianco e il nero, tra le diatribe degli accesi dibattiti e la spensieratezza di un giullare chiamato a divertire. Difatti fu proprio questo aspetto che fece indignare il Tribunale dell’Inquisizione ed addirittura movente per condannare il Caliari, che venne chiamato a rispondere direttamente a Bologna, in sede di udienza di questa sua spregiudicatezza. Egli si discolpò affermando che “se nel quadro li avanza spacio, io l’adorno di figure secondo le invenzioni”, rivendicando quindi la sua libertà di espressione in ambito pittorico. Il tribunale si convinse, tanto da assolvere il Veronese con l’unico obbligo di modificare il titolo della tela da Ultima cena a Cena in casa Levi.

Elia Monetti