• Odilon Redon
  • 1881
  • Carboncino su carta
  • cm 49,5 x 37,5
  • Collezione privata – Paesi Bassi

Il ragno che piange è una delle opere più enigmatiche di Odilon Redon e dell’intero Simbolismo. Non è certo di chi sia il volto ritratto, né ci sono ipotesi plausibili che indichino i motivi per cui Redon avrebbe disegnato un soggetto tanto disturbante. “Bisogna rispettare il nero, niente lo prostituisce. Non è gradevole alla vista e non risveglia la sensualità. Ma è agente dello spirito e della mente più di quanto possa esserlo il colore più bello della tavolozza o del prisma”.  Così, Odilon Redon, parlava del nero del proprio tratto buio, da cui nascono capolavori quali il ragno che piange e la sua controparte: il ragno che sorride. È un’opera che non sembra rivelare alcun messaggio di tipo morale, chiede solo di essere osservata e implora emozioni, scuote l’animo dello spettatore come solo il connubio di assurdo e tristezza può fare.

Il disegno, chiaramente simbolistacritica il naturalismo e il realismo in ogni suo tratto, sembra, inoltre, presagire le caratteristiche tipiche dell’impressionismo. Non c’è cura della realtà, d’altronde perché preoccuparsi del numero di zampe dell’aracnide se sul ventre peloso dello stesso si erge un volto umano, così umano da suscitarci pietà? Questa tavola a carboncino pare dire così tanto e così poco allo stesso tempo. Dietro uno stile tanto cupo si celano anni di sofferenze dell’artista, ma quest’opera in particolare non parla di abbandono genitoriale, né di difficoltà scolastiche, ma racconta un incubo, ha la parola “sofferenza” incisa tra un tratto di carboncino e l’altro, e lo spettatore la legge, o meglio l’avverte, ignaro. Ciò che più colpisce del disegno è che pare impossibile smettere di osservare gli occhi del ragno, i quali sembrano sottrarsi allo sguardo dello spettatore e chiedergli contemporaneamente pietà.

Odilon Redon mentre disegnava, nel 1881, questo ragno e il suo “gemello ossimorico”, quello che sorride, sembrava avere in mente le parole del massimo simbolista francese dell’800: Charles Baudelaire, suo connazionale, che in “Spleen” scrive: “Un popolo muto di ragni infami tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli”. E similmente si comporta il ragno di Redon che, silenziosamente, tesse una complessa ragnatela di emozioni e sensazioni che tengono la mente e gli occhi di chi osserva l’opera incatenati alla lacrima del goffo e sgraziato ragno che piange.

Viola Ghibellini