• Giorgio De Chirico
  • 1917/1919
  • Olio su tela
  • 97×67 cm
  • Collezione privata – Milano

Muse Inquietanti è uno dei più celebri dipinti di Giorgio De Chirico, realizzato nel 1917 durante la Prima Guerra mondiale, considerato dall’autore stesso il “manifesto” della pittura metafisica, tendenza artistica del XX secolo, che ha l’obbiettivo di rappresentare tutto ciò che si trova oltre la tradizionale apparenza fisica della realtà e che si trova oltre ciò che i sensi possono percepire. La scelta del suggestivo titolo dell’opera riguarda le Muse, personaggi della mitologia greca con il compito di proteggere le arti. Nel corso della storia molti poeti ed artisti si sono rivolti a loro per ricevere l’ispirazione necessaria per realizzare dei capolavori; nonostante abbiano un ruolo positivo, De Chirico le definisce “inquietanti” poiché la realtà concepita dall’artista è diversa dalla nostra, in questo mondo le Muse non devono più fornire l’ispirazione all’artista, ma devono guidarci e portarci oltre le apparenze per farci scoprire la realtà, una realtà vuota e priva di vita, un’eternità immobile e priva di spiegazione, riconducibile in un certo senso alla morte.

L’artista ha scelto Ferrara per lo sfondo del suo capolavoro perché la considera una città caratterizzata da un’eccellente struttura urbanistica ed architettonica e ama la geometria che la compone. Un’atmosfera angosciante e misteriosa avvolge la grande piazza senza tempo e priva di vita raffigurata nel dipinto come un palcoscenico teatrale. Infatti il pavimento non è costituito da una tradizionale pavimentazione, come dei classici sanpietrini, ma da assi di legno disposte ortogonalmente al bordo orizzontale del dipinto, con l’effetto di un palcoscenico inclinato verso il pubblico e rialzato verso il fondo, dove appare il Castello Estense, mentre sul lato sinistro dell’opera è raffigurata una fabbrica con due grandi ciminiere in mattone; le due strutture creano un forte e stridente contrasto fra antico e moderno, tra passato e presente, e sono entrambe disabitate e abbandonate, nel castello non appaiono stanze illuminate da candele o quant’altro e le ciminiere della fabbrica non emettono fumo.

Nella visione prospettica, l’opera è divisibile in due parti: nella sezione inferiore, dove si trovano i manichini, la scena è caratterizzata dall’uso di una prospettiva alta, come se il nostro punto di vista fosse più alto rispetto a ciò che stiamo guardando. Nella sezione superiore dell’opera, quella con il castello, invece, il punto di vista utilizzato è diverso rispetto al precedente, è più basso. Nella scelta di utilizzare una doppia prospettiva De Chirico si è liberamente ispirato a pittori tedeschi e artisti fiamminghi del ‘400 che sfruttavano questa particolare tecnica.

Il protagonista in primo piano a sinistra, è una strana figura composta da un basamento circolare, il fusto di una colonna, un busto scolpito e coperto da una tunica, e la testa di un manichino da sartoria. Qualcosa di particolare colpisce nel suo abbigliamento: indossa una veste all’antica che nella parte inferiore cade formando delle linee verticali che ricordano le scanalature di una classica colonna greca, di stile ionico. È Melpomene, la Musa della tragedia. A destra, invece, si trova un’altra figura  seduta. L’abito scende a terra formando quattro pieghe volumetriche che richiamano il fusto della colonna di sinistra. Le parti che rappresentano le braccia, poi, sono unite sulle gambe e sembrano conserte. Il torace infine, è aperto e mostra un’apertura scura, mentre al posto del volto vi è un pomello di un manichino, le impunture tratteggiate lungo la struttura indicano che si tratta di uno strumento da sartoria. Ha la testa smontata e appoggiata accanto a se che evoca una delle maschere africane in voga nella Parigi del ‘900, utilizzata anche da Pablo Picasso in una sua opera.

Questa presenza rimanda alle figure arcaiche delle madri etrusche e romane con le braccia raccolte sul ventre. Questa è Talia, la Musa della commedia. A terra si trovano degli oggetti, una scatola colorata e decorata con dei triangoli simile a quelle usate per vendere dolciumi, e, tra i due manichini, un palo infisso nel palco che sembra un bastoncino di zucchero. In secondo piano, più arretrata si può osservare una terza statua, in ombra, con fattezze umane, ma con la stessa testa arrotondata, che rappresenta un’antica statua di Apollo, il dio greco, capo delle Muse. Bloccate, nel silenzio di questa piazza così ampia e profonda, con quell’improbabile panorama formato dal castello, simbolo di un passato glorioso ma irrimediabilmente perduto, e dalle ciminiere in disuso, squallidi simboli di modernità, queste muse sono immobili, come fossero in un palco vuoto che non attende pubblico.

Sono presenze misteriose, che mai potranno rivelarci il loro inaccessibile segreto. Inquietanti, perché ci suggeriscono di andare oltre le apparenze e dialogare col mistero. I colori utilizzati nel dipinto sono caldi, accesi, intensi. Domina l’arancione ocra del palcoscenico, che viene utilizzato più saturo sul castello Estense, nella testa del manichino di sinistra, e sulla maschera tribale. Anche le ciminiere della fabbrica hanno un tono marrone tendente all’arancio. Il blu dalla tonalità forte che colora la scatola su cui è seduto un manichino, essendo complementare all’arancio, risulta molto evidente, e forse quello che spicca maggiormente per vivacità all’interno del dipinto. La scatola in primo piano, disegnata obliquamente, possiede due triangoli, nuovamente in contrasto di complementari, il verde e il rosso, mentre il giallo nella sezione superiore è la parte più luminosa del dipinto.

La luce, netta e intensa, come in tutte le opere metafisiche, proviene da destra e determina profonde ombre ritagliate sul palcoscenico verso sinistra. Gli indicatori spaziali e di profondità utilizzati, parzialmente, in modo incoerente, creano l’impressione di irrealtà e quindi di inquietudine metafisica. Ogni cosa appare irreale in questo ambiente onirico, dove tutto é immobile e dove non si scorge presenza umana: non é un ambiente realmente vivibile, solo un manichino può abitarvi, giacché esso ha l’aspetto dell’uomo ma non ne possiede di certo l’anima. Secondo De Chirico l’arte non deve avere alcun legame con la realtà, poiché il suo scopo non è rappresentare le cose così come sono, ma scoprire la via primaria per mostrare il lato insolito e misterioso che si cela dietro l’apparente banalità della vita quotidiana. “Perché un’opera d’arte sia veramente immortale”, scrisse infatti “è necessario che esca completamente dai confini dell’umano: il buon senso e la logica la danneggiano”, annullando il senso di mistero che ognuno di noi percepisce entro e oltre la visione reale. Questo dipinto pertanto si avvale di un linguaggio nuovo e a-logico, crea un clima di magia silenziosa, priva di dramma o di azione, ma di ricerca del meraviglioso che affiora nel quotidiano. L’enigma, la suggestione, il mistero, lo spaesamento, sono i veri protagonisti dell’opera e la traducono in un capolavoro della pittura moderna.

Virginia Maestri